Anatomia di un incontro: Lost in Translation

Lost in Translation, locandina

«Il film parla di equivoci tra persone e luoghi.» – «Tratta di cose sconnesse e la ricerca di connessione. Ci sono così tanti momenti nella vita in cui le persone non dicono ciò che realmente vorrebbero, quando si perdono l’un l’altro in attesa di incontrarsi in un corridoio.». Questa è la descrizione che la regista, Sofia Coppola, fa del suo secondo film Lost in Translation, uscito nelle sale cinematografiche nel 2003.

Dopo l’esordio alla regia conIl giardino delle vergini suicide(1999), Sofia Coppola, pur riprendendo temi e suggestioni del suo primo film, sembra andare un po’ fuori da quello che è il suo tracciato stilistico. Infatti, ilsoggetto è analizzato in maniera più intima e con una maggior sospensione, tanto che appena terminata lavisione ho pensato quanto il film fosse «poco americano».

Del resto, è proprio la regista che, attraversol’inserzione di citazioni più o meno esplicite, ci mostra, per la prima volta, quante delle sue scelte visive siano debitrici al cinema europeo. Ad esempio, ponendo in apertura il dettaglio delle mutande rosa trasparenti di Scarlett Johansson sdraiata di lato sul letto, ci rimanda alla celebre sagoma nuda di Brigitte Bardot nella scena iniziale del filmLe Mépris (1963) di Jean-Luc Godard.

Lost in Translation, Le mépris
Godard, Le mépris, Brigitte Bardot, Lost in translation

Un altro riferimento che la regista inserisce nel film, questa volta in maniera molto più diretta, è nel momento in cui i due protagonisti si godono insieme la visione de La Dolce Vita (1960) di Federico Fellini.

Lost in translation, La dolce vita Fellini

Ma il film, riflettendo sui suoi modelli, è intriso di una propria profonda veridicità, tanto che fa vincere alla regista il premio come miglior sceneggiatura originale. Infatti, il fulcro dell’intero film è rappresentato dalla parola, o dalla sua assenza, che inevitabilmente porta lo spettatore a riflettere su sé stesso e sulle proprie scelte di vita. D’altronde, la regista ammette che, durante la scrittura delfilm, fosse ella stessa: “in quella fase in cui non ero sicura di aver fatto le scelte giuste o di quelloche stavo facendo della mia vita da adulta post-college'”: è proprio questa sensazione di incertezzache emerge prepotentemente dalla trama del film, all’apparenza inconsistente, che sembra nonportare mai da nessuna parte.

La non-narrazione, infatti, si sviluppa proprio intorno al senso di esitazione e di blocco dei due protagonisti, che si trovano soli in una città enorme e per loro sconosciuta, lontani dalle certezze e dagli affetti quotidiani. Da un lato c’è Charlotte, giovane studentessa di filosofia, che è a Tokyo per accompagnare il marito, con cui però sta vivendo un momento di crisi, e dall’altro c’è Bob, celebre attore ormai in declino, che si trova nella capitale giapponese per girare uno spot pubblicitario. I due sembrano essere la rappresentazione cinematografica di una celebre frase di Montale degli anni ‘70 «Solo gli isolati comunicano.»; infatti la coppia riesce, con spontaneità, ad arrivare a una profonda connessione, a un’intimità insolita in poco tempo e attraverso dinamiche del tutto casuali.

La sensazione è quella di accedere a una bolla temporale e spaziale in cui due esseri umani, così lontani per interesse, età e stile di vita, che probabilmente non avrebbero mai incrociato il loro cammino, uniscono le loro esistenze nel luogo e nel momento più giusto possibile. L’aspetto più rappresentativo di questa muta connessione trova il suo apice nella scena finale, dove i due, salutandosi con imbarazzo, probabilmente consapevoli che sarà l’ultima volta che si vedranno, si abbracciano appassionatamente finoall’ultimo istante in cui Bob sussurra a Charlotte qualcosa di incomprensibile all’orecchio.

Lost in translation, last scene

“Cosa ha detto Bill Murray a Scarlett Johansson?” La domanda invade la mente dello spettatore che, in momenti di nostalgico vagheggiamento, si arrovella su questo amletico finale. L’alone di ambiguità dietro quest’addio, confermato anche dalla regista stessa che nega di sapere le parole esatte del protagonista (qualora ci siano), credo sia però il modo più coerente ed esatto di rappresentare la fine di un incontro, così importante ma al contempo così fugace, come la nostra permanenza sulla Terra.

Credits:  Images courtesy of Wikipedia, Il tempo impressoSabzian, Films in films and L'arte che mi piace.Thanks to Just like Honey. Il cinema di Sofia Coppola, written by Cecilia Strazza and Martina Ponziani

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